sabato 11 dicembre 2010

Così parlò San Matteo

di domenico fauceglia

Fuori dal tribunale

un avvocato

incontra un povero Cristo,

ha il volto segnato dal male

che gli uomini gli hanno provocato,

insomma, un uomo tristo.

“dimmi, buon uomo, cosa ti nuoce?

alzati dal bordo di quel marciapiede

e libera la tua voce”

“Avvocà, non mi alzerò da terra

perché questo è il posto che la gente mi diede

dato che il pentimento mio non afferra.”

“Cosa ti rende così indegno

di stare per strada

E piangerti addosso?

tu della felicità sei degno

la legge ti permette una casa

e non di ridurti all’osso!

Sei un uomo come tutti gli altri,

ora forza! Reagisci.

Alzati,

altrimenti te stesso tradisci”

“Avvocà, la gente non mi ascolta

e dato che la nostra vita

dagli altri è data e poi vien tolta

vivo qui ai bordi di una via

e conterò con le dita

gli anni di una esistenza morta”

“ma cosa dici! Tu puoi far ciò che ti pare

e non stare qui, per via

l’importante è seguire una regola da non dimenticare:

non far a nessuno ciò che non piace a te, è di Tobia.

Cioè in questo mondo

siam tutti eguali

a tutti i diritti son da tutelare

da qui nasce l’idea di fondo

della legge che evita i nostri mali

e per questo è da rispettare,

se tutti la osservassimo, la felicità

sarebbe l’effetto

e vivrebbe in pace tutta la comunità

a ognuno un lavoro ed un tetto

ricorda: non fare ad altri ciò che a te non vorresti esser fatto

è una regola simmetrica

ci mette su uno stesso piatto

e non esiste ermeneutica”

“Sì , avvocà, ma può capitare che un fatto

che a me piace

a voi dispiace..

..è vero non esiste ombra

che da sola si leda

e quindi dal momento che non desidero esser danneggiato

secondo la tobiana norma

nessuno da altri deve esser guastato.

Ah! Quante volte ho questa regola osservato

e secondo voi è sufficiente

per render la comunità felicitata?”

“Il diritto non mente

ed è potente

sempre che la legge venga rispettata.”

“Avvocà, m’avete messo

con le spalle al muro

il mio guaio è d’aver troppo amato

talmente troppo da diventare fesso,

ed ora è inutile che faccio il muso duro

perché mia moglie col suo amante ho assassinato

preso dalla gelosia li ho uccisi

a vederli non mi son fermato

tre battiti del mio cuore

ed ho ammazzato

e in quel momento se ne è andato il mio amore

ora la triste idea mi nuoce

e nel momento in cui è importante

l’ascolto di qualcuno

parlo con qualche passante

ma a darmi retta non c’è nessuno

vedete queste dita

hanno fatto parlare molto

ed ora la mia vita

la gente ha tolto.

Da quella sera non ho più veduto

né ho più nulla amato

ho cercato l’amore anche da ravveduto

ma, ripeto, a decidere son sempre gli altri

di vivere faccio conati

ma la regola da seguire

Ciò che tu non voglia non fare ad altri

un divieto esprime.

Avvocà, non possiamo rimanere fermi

e farci scivolare tutto addosso

questa regola ci invita ad astenerci

ed ora che son pentito sono ridotto all’osso.

È possibile quando nessuno da

qualcosa, ricevere felicità?

San Matteo diceva che agli altri devi fare

Ciò che vorresti essere a te fatto

Ci invita a donare…e non è niente

e non stare fermi a guardar ciò che ho fatto,

qui si mente

e non siam capaci d’amare

bisogna capire bene

cosa alle persone dare

e non rimanere lì a fare il muso

e stare a giudicare

di solito diciamo: cosa ho fatto di male?

Ma San Matteo vuole che ci chiediamo:

Quale bene ho effuso?

Che cosa ho fatto di bene?

La legge garantisce una convivenza pacifica

ma per la felicità a poco serve

qui, bisogna ascoltare il cuore

che ci dà cosa magnifica:

l’amore. Domenico Fauceglia © 2010 riproduzione riservata
È sufficiente il diritto per una felice convivenza? Di domenico fauceglia La più importante regola da rispettare è scritta nel libro di tobia: “non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tobia 4,15 Bibbia), è una variante del più comune principio: non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Un principio noto a tutte a tutte le religioni, è criterio morale, noto già nell’antichità e nel giudaismo. Non è solo formula di giustizia ma anche di uguaglianza. Parlandosi di formula di giustizia e di uguaglianza necessariamente la formula è costruita secondo una regola di simmetria e reciprocità. Questa regola, però, non è caratterizzata solo da sua costruzione speculare, ma anche da una formulazione negativa, la regola consiste in un divieto: NON FARE , questo ci impone un’astensione dal fare. Il metro di misura di questo divieto sono me stesso, così in base a ciò che non vorrei ricevere da altri (implicitamente, come logico che sia, si considerano cose dannose) io non do. La regola suppone, quindi, che nessuno accetti di essere danneggiato dagli altri, in quanto nessuno si danneggerebbe con le proprie mani. Così, dal momento che io non amo che qualcuno mi9 faccia male, sarò giusto che non nuoccia ad altri, almeno nei termini in cui mi sentirei danneggiato. Conforme alla regola di Tobia è quella di Ulpiano: “alterum non laedere” ossia non danneggiare gli altri, anche in questa regola il criterio per capire se un comportamento sia dannoso o meno siam sempre noi stessi. Però, se ragionassimo bene, la regola così interpretata sembra essere imperfetta. Avere come metro di misura noi stessi per decifrare i nostri comportamenti attribuire alla regola di Tobia una interpretazione molto soggettiva. Mi spiego, se io fossi un masochista e provassi piacere ad esser maltrattato (considerando così un comportamento dannoso come un comportamento ben accolto dalla società) dovrei comportarmi allo stesso modo con gli altri? Ma anche se non fossi un masochista , da comune persona potrei ritenere un atto come non dannoso e compio lo stesso al mio prossimo, il quale invece lo ritiene dannoso. Come risolvere allora tale questione? La regola qui sembra impotente. È impotente perché spezza quella simmetria propria della giustizia, due punti (due comportamenti) non saranno più equidistanti ad una retta(regola di Tobia), e laddove non c’è simmetria non c’è giustizia. La regola di Tobia e di Ulpiano hanno l’importanza di spiegare che gli uomini son tutti uguali tra loro, e l’uguaglianza degli uomini sta nell’equidistanza degli stessi alla legge (regola oggettiva e non più soggettiva). Ognuno di noi, secondo la regola di Tobia, è tenuto a non ledere l’altrui sfera giuridica (detto in termini di diritto) come direbbe Wittgenstein, davanti a tale formula si respira aria di famiglia, proprio perché ci rende uguali. Ora, è sufficiente questa regola per raggiungere la felicità? O sia, è pacifico l’idea che una regola di giustizia fornisca un criterio sufficiente per una pacifica convivenza (intesa come serena convivenza), ma dobbiamo chiederci cosa serve per venire incontro a tutti gli uomini, come dobbiamo comportarci per promuovere l’aiuto? Per promuovere il bene e aiutare gli altri, la regola di Tobia non è sufficiente perché impone un divieto: non fare. Il bene e l’aiuto necessitano del fare. Il Santo patrono di Salerno enuncia la “regola aurea”, questa, riflettendoci bene, ha carattere innovativo poiché varia la formulazione (in positivo: fare) della regola tobiana: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo loro” (Matteo: 7,12) . La regola aurea sembra che non si discosti tanto dalla regola tobiana, ma le conseguenze sono più rilevanti. È chiaro che non danneggiare gli altri significa: non uccidere, non rubare e tanti altri divieti che il Decalogo elenca. Ma cosa significa fare ad altri quel che si vorrebbe fosse fatto a noi? Significa assumere come criterio dell’azione non solo la giustizia, ma soprattutto l’indigenza (ossia la povertà, la miseria che creano un forte stato di bisogno). È infatti giusto il comandamento: non uccidere, cristallizzato nell’articolo 575 del codice penale (chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione..) ma può accadere che chi ha ucciso abbia bisogno di essere accolto nella società, anche l’assassino che si è pentito deve essere riaccolto dalla società. A tutti capita di sbagliare. Per perdonare come ci insegna Gesù, c’è bisogno di essere miseri nel cuore (miseri-cordia), dobbiamo metterci nei panni del più debole per provare quel sentimento di pietà e compassione che solo l’essere miseri nel cuore può farcelo provare. Se fossimo noi gli assassini ravveduti, in condizioni non tanto di soffrire la pena inflitta ma di soffrire l’emarginazione perenne della società, non vorremmo che qualcuno ci liberasse da noi stessi, che ci redimesse dalla nostra parte maligna, che si rivolgesse a noi con amore e pietà per aiutarci a diventare migliori? Questo vorremmo che qualcuno facesse per noi. Se così è, non è sufficiente astenersi dal fare, come dice Tobia, per essere buoni è necessario “fare”: bisogna agire nei confronti degli altri come vorremmo fosse fatto a noi quando soffriamo per il dolore o quando temiamo il pericolo o, soprattutto quando siamo vittime dei nostri errori. Fare ad altri significa dare da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, visitare i carcerati. Questo è poi nell’essenziale l’insegnamento di Gesù: “vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore.”(Mt, 9,36). Il divieto è necessario per vivere in comune, il diritto detta regole di base per assicurare un minimo di uguaglianza e di libertà, per questo è fondamentale. Ma il diritto non è il “Messia”, non ci rende felici, ma senz’altro ci consente di vivere meglio. Con la legge ci illudiamo di esser felici, il divieto è sì necessario, ma la giustizia è avara: limita sì il male, ma non rende gli uomini migliori ci illude di essere tali. Solitamente si dice: “cosa ho fatto di male?” ma il Vangelo ci interroga : “ tu cosa hai fatto di bene?” a tale scopo la legge a poco serve. È necessario l’amore: quel sentimento che ci porta a donare e non porre attenzione al ricevere. Domenico Fauceglia, settembre 2010

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