sabato 11 dicembre 2010

Così parlò San Matteo

di domenico fauceglia

Fuori dal tribunale

un avvocato

incontra un povero Cristo,

ha il volto segnato dal male

che gli uomini gli hanno provocato,

insomma, un uomo tristo.

“dimmi, buon uomo, cosa ti nuoce?

alzati dal bordo di quel marciapiede

e libera la tua voce”

“Avvocà, non mi alzerò da terra

perché questo è il posto che la gente mi diede

dato che il pentimento mio non afferra.”

“Cosa ti rende così indegno

di stare per strada

E piangerti addosso?

tu della felicità sei degno

la legge ti permette una casa

e non di ridurti all’osso!

Sei un uomo come tutti gli altri,

ora forza! Reagisci.

Alzati,

altrimenti te stesso tradisci”

“Avvocà, la gente non mi ascolta

e dato che la nostra vita

dagli altri è data e poi vien tolta

vivo qui ai bordi di una via

e conterò con le dita

gli anni di una esistenza morta”

“ma cosa dici! Tu puoi far ciò che ti pare

e non stare qui, per via

l’importante è seguire una regola da non dimenticare:

non far a nessuno ciò che non piace a te, è di Tobia.

Cioè in questo mondo

siam tutti eguali

a tutti i diritti son da tutelare

da qui nasce l’idea di fondo

della legge che evita i nostri mali

e per questo è da rispettare,

se tutti la osservassimo, la felicità

sarebbe l’effetto

e vivrebbe in pace tutta la comunità

a ognuno un lavoro ed un tetto

ricorda: non fare ad altri ciò che a te non vorresti esser fatto

è una regola simmetrica

ci mette su uno stesso piatto

e non esiste ermeneutica”

“Sì , avvocà, ma può capitare che un fatto

che a me piace

a voi dispiace..

..è vero non esiste ombra

che da sola si leda

e quindi dal momento che non desidero esser danneggiato

secondo la tobiana norma

nessuno da altri deve esser guastato.

Ah! Quante volte ho questa regola osservato

e secondo voi è sufficiente

per render la comunità felicitata?”

“Il diritto non mente

ed è potente

sempre che la legge venga rispettata.”

“Avvocà, m’avete messo

con le spalle al muro

il mio guaio è d’aver troppo amato

talmente troppo da diventare fesso,

ed ora è inutile che faccio il muso duro

perché mia moglie col suo amante ho assassinato

preso dalla gelosia li ho uccisi

a vederli non mi son fermato

tre battiti del mio cuore

ed ho ammazzato

e in quel momento se ne è andato il mio amore

ora la triste idea mi nuoce

e nel momento in cui è importante

l’ascolto di qualcuno

parlo con qualche passante

ma a darmi retta non c’è nessuno

vedete queste dita

hanno fatto parlare molto

ed ora la mia vita

la gente ha tolto.

Da quella sera non ho più veduto

né ho più nulla amato

ho cercato l’amore anche da ravveduto

ma, ripeto, a decidere son sempre gli altri

di vivere faccio conati

ma la regola da seguire

Ciò che tu non voglia non fare ad altri

un divieto esprime.

Avvocà, non possiamo rimanere fermi

e farci scivolare tutto addosso

questa regola ci invita ad astenerci

ed ora che son pentito sono ridotto all’osso.

È possibile quando nessuno da

qualcosa, ricevere felicità?

San Matteo diceva che agli altri devi fare

Ciò che vorresti essere a te fatto

Ci invita a donare…e non è niente

e non stare fermi a guardar ciò che ho fatto,

qui si mente

e non siam capaci d’amare

bisogna capire bene

cosa alle persone dare

e non rimanere lì a fare il muso

e stare a giudicare

di solito diciamo: cosa ho fatto di male?

Ma San Matteo vuole che ci chiediamo:

Quale bene ho effuso?

Che cosa ho fatto di bene?

La legge garantisce una convivenza pacifica

ma per la felicità a poco serve

qui, bisogna ascoltare il cuore

che ci dà cosa magnifica:

l’amore. Domenico Fauceglia © 2010 riproduzione riservata
È sufficiente il diritto per una felice convivenza? Di domenico fauceglia La più importante regola da rispettare è scritta nel libro di tobia: “non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tobia 4,15 Bibbia), è una variante del più comune principio: non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Un principio noto a tutte a tutte le religioni, è criterio morale, noto già nell’antichità e nel giudaismo. Non è solo formula di giustizia ma anche di uguaglianza. Parlandosi di formula di giustizia e di uguaglianza necessariamente la formula è costruita secondo una regola di simmetria e reciprocità. Questa regola, però, non è caratterizzata solo da sua costruzione speculare, ma anche da una formulazione negativa, la regola consiste in un divieto: NON FARE , questo ci impone un’astensione dal fare. Il metro di misura di questo divieto sono me stesso, così in base a ciò che non vorrei ricevere da altri (implicitamente, come logico che sia, si considerano cose dannose) io non do. La regola suppone, quindi, che nessuno accetti di essere danneggiato dagli altri, in quanto nessuno si danneggerebbe con le proprie mani. Così, dal momento che io non amo che qualcuno mi9 faccia male, sarò giusto che non nuoccia ad altri, almeno nei termini in cui mi sentirei danneggiato. Conforme alla regola di Tobia è quella di Ulpiano: “alterum non laedere” ossia non danneggiare gli altri, anche in questa regola il criterio per capire se un comportamento sia dannoso o meno siam sempre noi stessi. Però, se ragionassimo bene, la regola così interpretata sembra essere imperfetta. Avere come metro di misura noi stessi per decifrare i nostri comportamenti attribuire alla regola di Tobia una interpretazione molto soggettiva. Mi spiego, se io fossi un masochista e provassi piacere ad esser maltrattato (considerando così un comportamento dannoso come un comportamento ben accolto dalla società) dovrei comportarmi allo stesso modo con gli altri? Ma anche se non fossi un masochista , da comune persona potrei ritenere un atto come non dannoso e compio lo stesso al mio prossimo, il quale invece lo ritiene dannoso. Come risolvere allora tale questione? La regola qui sembra impotente. È impotente perché spezza quella simmetria propria della giustizia, due punti (due comportamenti) non saranno più equidistanti ad una retta(regola di Tobia), e laddove non c’è simmetria non c’è giustizia. La regola di Tobia e di Ulpiano hanno l’importanza di spiegare che gli uomini son tutti uguali tra loro, e l’uguaglianza degli uomini sta nell’equidistanza degli stessi alla legge (regola oggettiva e non più soggettiva). Ognuno di noi, secondo la regola di Tobia, è tenuto a non ledere l’altrui sfera giuridica (detto in termini di diritto) come direbbe Wittgenstein, davanti a tale formula si respira aria di famiglia, proprio perché ci rende uguali. Ora, è sufficiente questa regola per raggiungere la felicità? O sia, è pacifico l’idea che una regola di giustizia fornisca un criterio sufficiente per una pacifica convivenza (intesa come serena convivenza), ma dobbiamo chiederci cosa serve per venire incontro a tutti gli uomini, come dobbiamo comportarci per promuovere l’aiuto? Per promuovere il bene e aiutare gli altri, la regola di Tobia non è sufficiente perché impone un divieto: non fare. Il bene e l’aiuto necessitano del fare. Il Santo patrono di Salerno enuncia la “regola aurea”, questa, riflettendoci bene, ha carattere innovativo poiché varia la formulazione (in positivo: fare) della regola tobiana: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo loro” (Matteo: 7,12) . La regola aurea sembra che non si discosti tanto dalla regola tobiana, ma le conseguenze sono più rilevanti. È chiaro che non danneggiare gli altri significa: non uccidere, non rubare e tanti altri divieti che il Decalogo elenca. Ma cosa significa fare ad altri quel che si vorrebbe fosse fatto a noi? Significa assumere come criterio dell’azione non solo la giustizia, ma soprattutto l’indigenza (ossia la povertà, la miseria che creano un forte stato di bisogno). È infatti giusto il comandamento: non uccidere, cristallizzato nell’articolo 575 del codice penale (chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione..) ma può accadere che chi ha ucciso abbia bisogno di essere accolto nella società, anche l’assassino che si è pentito deve essere riaccolto dalla società. A tutti capita di sbagliare. Per perdonare come ci insegna Gesù, c’è bisogno di essere miseri nel cuore (miseri-cordia), dobbiamo metterci nei panni del più debole per provare quel sentimento di pietà e compassione che solo l’essere miseri nel cuore può farcelo provare. Se fossimo noi gli assassini ravveduti, in condizioni non tanto di soffrire la pena inflitta ma di soffrire l’emarginazione perenne della società, non vorremmo che qualcuno ci liberasse da noi stessi, che ci redimesse dalla nostra parte maligna, che si rivolgesse a noi con amore e pietà per aiutarci a diventare migliori? Questo vorremmo che qualcuno facesse per noi. Se così è, non è sufficiente astenersi dal fare, come dice Tobia, per essere buoni è necessario “fare”: bisogna agire nei confronti degli altri come vorremmo fosse fatto a noi quando soffriamo per il dolore o quando temiamo il pericolo o, soprattutto quando siamo vittime dei nostri errori. Fare ad altri significa dare da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, visitare i carcerati. Questo è poi nell’essenziale l’insegnamento di Gesù: “vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore.”(Mt, 9,36). Il divieto è necessario per vivere in comune, il diritto detta regole di base per assicurare un minimo di uguaglianza e di libertà, per questo è fondamentale. Ma il diritto non è il “Messia”, non ci rende felici, ma senz’altro ci consente di vivere meglio. Con la legge ci illudiamo di esser felici, il divieto è sì necessario, ma la giustizia è avara: limita sì il male, ma non rende gli uomini migliori ci illude di essere tali. Solitamente si dice: “cosa ho fatto di male?” ma il Vangelo ci interroga : “ tu cosa hai fatto di bene?” a tale scopo la legge a poco serve. È necessario l’amore: quel sentimento che ci porta a donare e non porre attenzione al ricevere. Domenico Fauceglia, settembre 2010
È sufficiente il diritto per una felice convivenza? Di domenico fauceglia La più importante regola da rispettare è scritta nel libro di tobia: “non fare a nessuno ciò che non piace a te” (Tobia 4,15 Bibbia), è una variante del più comune principio: non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Un principio noto a tutte a tutte le religioni, è criterio morale, noto già nell’antichità e nel giudaismo. Non è solo formula di giustizia ma anche di uguaglianza. Parlandosi di formula di giustizia e di uguaglianza necessariamente la formula è costruita secondo una regola di simmetria e reciprocità. Questa regola, però, non è caratterizzata solo da sua costruzione speculare, ma anche da una formulazione negativa, la regola consiste in un divieto: NON FARE , questo ci impone un’astensione dal fare. Il metro di misura di questo divieto sono me stesso, così in base a ciò che non vorrei ricevere da altri (implicitamente, come logico che sia, si considerano cose dannose) io non do. La regola suppone, quindi, che nessuno accetti di essere danneggiato dagli altri, in quanto nessuno si danneggerebbe con le proprie mani. Così, dal momento che io non amo che qualcuno mi9 faccia male, sarò giusto che non nuoccia ad altri, almeno nei termini in cui mi sentirei danneggiato. Conforme alla regola di Tobia è quella di Ulpiano: “alterum non laedere” ossia non danneggiare gli altri, anche in questa regola il criterio per capire se un comportamento sia dannoso o meno siam sempre noi stessi. Però, se ragionassimo bene, la regola così interpretata sembra essere imperfetta. Avere come metro di misura noi stessi per decifrare i nostri comportamenti attribuire alla regola di Tobia una interpretazione molto soggettiva. Mi spiego, se io fossi un masochista e provassi piacere ad esser maltrattato (considerando così un comportamento dannoso come un comportamento ben accolto dalla società) dovrei comportarmi allo stesso modo con gli altri? Ma anche se non fossi un masochista , da comune persona potrei ritenere un atto come non dannoso e compio lo stesso al mio prossimo, il quale invece lo ritiene dannoso. Come risolvere allora tale questione? La regola qui sembra impotente. È impotente perché spezza quella simmetria propria della giustizia, due punti (due comportamenti) non saranno più equidistanti ad una retta(regola di Tobia), e laddove non c’è simmetria non c’è giustizia. La regola di Tobia e di Ulpiano hanno l’importanza di spiegare che gli uomini son tutti uguali tra loro, e l’uguaglianza degli uomini sta nell’equidistanza degli stessi alla legge (regola oggettiva e non più soggettiva). Ognuno di noi, secondo la regola di Tobia, è tenuto a non ledere l’altrui sfera giuridica (detto in termini di diritto) come direbbe Wittgenstein, davanti a tale formula si respira aria di famiglia, proprio perché ci rende uguali. Ora, è sufficiente questa regola per raggiungere la felicità? O sia, è pacifico l’idea che una regola di giustizia fornisca un criterio sufficiente per una pacifica convivenza (intesa come serena convivenza), ma dobbiamo chiederci cosa serve per venire incontro a tutti gli uomini, come dobbiamo comportarci per promuovere l’aiuto? Per promuovere il bene e aiutare gli altri, la regola di Tobia non è sufficiente perché impone un divieto: non fare. Il bene e l’aiuto necessitano del fare. Il Santo patrono di Salerno enuncia la “regola aurea”, questa, riflettendoci bene, ha carattere innovativo poiché varia la formulazione (in positivo: fare) della regola tobiana: “tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo loro” (Matteo: 7,12) . La regola aurea sembra che non si discosti tanto dalla regola tobiana, ma le conseguenze sono più rilevanti. È chiaro che non danneggiare gli altri significa: non uccidere, non rubare e tanti altri divieti che il Decalogo elenca. Ma cosa significa fare ad altri quel che si vorrebbe fosse fatto a noi? Significa assumere come criterio dell’azione non solo la giustizia, ma soprattutto l’indigenza (ossia la povertà, la miseria che creano un forte stato di bisogno). È infatti giusto il comandamento: non uccidere, cristallizzato nell’articolo 575 del codice penale (chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione..) ma può accadere che chi ha ucciso abbia bisogno di essere accolto nella società, anche l’assassino che si è pentito deve essere riaccolto dalla società. A tutti capita di sbagliare. Per perdonare come ci insegna Gesù, c’è bisogno di essere miseri nel cuore (miseri-cordia), dobbiamo metterci nei panni del più debole per provare quel sentimento di pietà e compassione che solo l’essere miseri nel cuore può farcelo provare. Se fossimo noi gli assassini ravveduti, in condizioni non tanto di soffrire la pena inflitta ma di soffrire l’emarginazione perenne della società, non vorremmo che qualcuno ci liberasse da noi stessi, che ci redimesse dalla nostra parte maligna, che si rivolgesse a noi con amore e pietà per aiutarci a diventare migliori? Questo vorremmo che qualcuno facesse per noi. Se così è, non è sufficiente astenersi dal fare, come dice Tobia, per essere buoni è necessario “fare”: bisogna agire nei confronti degli altri come vorremmo fosse fatto a noi quando soffriamo per il dolore o quando temiamo il pericolo o, soprattutto quando siamo vittime dei nostri errori. Fare ad altri significa dare da mangiare agli affamati, vestire gli ignudi, visitare i carcerati. Questo è poi nell’essenziale l’insegnamento di Gesù: “vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore.”(Mt, 9,36). Il divieto è necessario per vivere in comune, il diritto detta regole di base per assicurare un minimo di uguaglianza e di libertà, per questo è fondamentale. Ma il diritto non è il “Messia”, non ci rende felici, ma senz’altro ci consente di vivere meglio. Con la legge ci illudiamo di esser felici, il divieto è sì necessario, ma la giustizia è avara: limita sì il male, ma non rende gli uomini migliori ci illude di essere tali. Solitamente si dice: “cosa ho fatto di male?” ma il Vangelo ci interroga : “ tu cosa hai fatto di bene?” a tale scopo la legge a poco serve. È necessario l’amore: quel sentimento che ci porta a donare e non porre attenzione al ricevere. Domenico Fauceglia, settembre 2010

giovedì 14 ottobre 2010

COME GLI ALTRI TI VOGLIONO

Già da piccolo mi sembrava difficile la vita. Figuriamoci ora.

Impara ad attraversare la strada, prima. Ora, impara a nascondere l’insicurezza, impara a infondere fiducia, impara a curare la tua apparenza, impara a sorridere come se ti venisse spontaneo, impara a vendere te stesso, impara a svegliarti presto la mattina e fregare il mondo … insomma impara a far il bravo! Ma cosa significa? Mai capito. Questo significa far carriera bello mio! Poi ci sono i corsi motivazionali , aziendali o privati, a darti sostegno. Bisogna essere egoisti, egocentrici, entusiasti e ottimisti. Bisogna imparare ad essere qualcuno ed avere rispetto. Impara a vivere!

Nietzsche, colui che ha annunciato l’avvento del nichilismo che avrebbe influenzato fortemente la cultura che attualmente viviamo, invitava a diventare se stessi, “diventa ciò che sei!”

Ora mi chiedo, che fine ha fatto quel famoso oracolo di Delfi, tanto bello quanto essenziale, “conosci te stesso”? oggi nessuno si dà cura di conoscere se stesso, né tanto meno di realizzare ciò per cui è nato, così da raggiungere la felicità, che i Greci chiamavano “eudaimonia”(il demone che vive dentro di te) e la riferivano a chi realizzava il proprio demone, che era la propria specifica virtù, Socrate parlava spesso del proprio demone e, soprattutto, parlava spesso col proprio demone, che gli permetteva di conoscersi.

Oggi, abbiamo rinunciato ad essere noi stessi e siamo diventati delle pure e semplici risposte agli altri. Attenzione! Non per altruismo ma per venderci meglio, così come l’industriale cerca di intercettare i bisogni del consumatore per vendere i propri prodotti. Questo processo di progressiva mercificazione ci ha portato a mercificare anche noi stessi. E se lasciamo ai bordi della società chi mercifica il proprio corpo, poniamo al centro chi mercifica per intero se stesso, pur di acquisire quella posizione di potere che gli consente di guardare dall’alto i propri simili, senza poter più riconoscere i lineamenti del proprio volto, così falso da renderlo a se stesso irriconoscibile.

E siccome alle sue spalle altri incalzano, la contraffazione di sé e la propria mercificazione non hanno limiti in quel percorso senza fine dove crolla ogni morale, perché la domanda che ci poniamo non è più “mi è lecito compiere quest’azione?” ma, ora, è: “Sono in grado di compiere quest’azione?”.

Al criterio del “promesso e proibito”, con cui l’umanità ha regolato se stessa a partire dalle tribù con i loro totem e tabù, si è sostituito il criterio del “possibile e impossibile”, dove per raggiungere l’impossibile, in termini di efficienza, produttività e funzionalità, performance spinte non si rinuncia né alla cocaina e né agli psicofarmaci. Questa nuova morale dove non ci si chiede più se mi è consentito compiere questa azione, ma se sono in grado di compierla o meno, crea ansia e stress, non come un tempo da sensi di colpa, ma da un senso di insufficienza, dove la nostra identità, che non abbiamo curato, ma affidato al riconoscimento degli altri, corre il suo massimo rischio.

Concludo il concetto con un pensiero di Vidiadhar Naipaul, scrittore britannico,: “Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio destino non era di essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma in che modo? Che cosa avevo da offrire? L'inquietudine cominciava a mangiarmi dentro”.

Domenico Fauceglia

venerdì 4 giugno 2010

FOLLIA, AMORE E CREATIVITÀ

Questa pagina raccoglie una serie di articoli pubblicati dalla rivista “libera Luiss” e delle riflessioni pubblicate sul sito epistemelaboratorio.blogspot.com, riguardo la ragione, la follia, la creatività e l’amore, ho aggiunto ultimamente anche riflessioni sul tradimento e sugli amori passati, riflessioni inedite e neonate. Buona lettura.

Domenico Fauceglia

CREATIVITÀ E FOLLIA

LA RAGIONE E FOLLIA

La ragione è un’isola piccolissima nello sfondo dell’irrazionalità

Platone nella Repubblica delinea la dottrina dell’anima fondata in tre parti (o facoltà) necessaria a spiegare come mai l’anima possa provare passioni contraddittorie: vi è una parte razionale (logistikòn) destinata al comando e la cui virtù è la sapienza, una parte animosa (thymoeidès) incline ad aiutare la parte razionale e la cui virtù è il coraggio e infine una parte appetitivi (epithymetikòn) che è la parte ribelle e insofferente ai dettami della ragione. Prima di accogliere l’epithymetikòn , Platone lo rifiutava cosi come respingeva dal suo Stato ideale musici e poeti, manifestazione di una natura ribelle.

Questi dovevano essere espulsi dalla città, perché contrari alle regole della logica, poi, però, Platone si ravvede, dopo un po’ afferma che la poesia e la musica sono più belle della ragione e che hanno una funzione essenziale per la salute fisica e morale dei guardiani (i guerrieri) e che lo stato stesso deve concentrare su di esse la massima attenzione. Ciò che è il contrasto tra logistikòn (razionalità) ed epithymetikòn (creatività) è stato al centro delle più importanti riflessioni dell’uomo.

Ma cosa è, però, la creatività? La creatività sembra un termine un po’ vuoto soprattutto se si pensa che in natura nulla si crea, nulla si distrugge e, quindi, tutto si trasforma.

Anche se “creatività” non abbia un contenuto molto preciso, è una parola, però, molto diffusa. Indica, in genere, il pensare in modo diverso e cioè risolvere in modo originale i problemi, esprimersi e atteggiarsi in modo nuovo e fuori dal comune. La creatività richiama una forma di intelligenza, che i cognitivisti chiamano divergente, ossia opposta da convergente.

L’intelligenza convergente risolve i problemi cercando la soluzione all’interno del problema, quella divergente, che è l’opposto, al di fuori del problema. A scuola si favorisce, ad esempio, l’intelligenza convergente, per questo i creativi di solito non vanno molto bene a scuola, hanno, insomma, una intelligenza non conforme. Per Freud la creatività è connessa alla perversione, l’uomo creativo misconosce le differenze, come ,ad esempio, i sadici e i masochisti che non conoscono la differenza tra piacere e sofferenza.

La perversione è alla base di un pensiero che “non va per il verso giusto”, e per verso intendo direzione. Se questa direzione vien lasciata alle pulsioni emerge la creatività. Sia cognitivismo che psicoanalisi parlano perciò di questo stato che è improntato dal misconoscimento delle differenze istituite dalla ragione.

Quando nasciamo, e finchè non arriviamo all’età della ragione, ci comportiamo in modo indifferenziato, un bambino infatti può usare un succhiotto e per succhiare e per usarlo come arma per minacciare il proprio fratello.

La ragione non è la verità, è solo un codice che fissa i significati delle cose, o meglio un codice condiviso che stabilisce cosa è ciascuna cosa.

Anche nella poesia, come nel mondo infantile, il poeta fa oscillare il significato delle cose, Leopardi parlava con la luna come se fosse una donna chiedendole cosa facesse in cielo, la luna nella poesia di Leopardi non è un satellite ma una donna con la quale confidarsi. Dal punto di vista della razionalità che senso avrebbe chiedere alla luna cosa facesse in cielo? Anzi sembrerei un matto se lo facessi.

Dal punto di vista della poesia il senso c’è ed è anche forte. La poesia associa i significati, e per questo è creatività, i significati contaminati sono tipici della follia, per i folli, infatti, una cosa non è sempre quella e allo stesso tempo non è nessun altra, per questo i loro comportamenti diventano titubanti. La creatività ha le sue radici nella follia, ossia nello scenario indifferenziato, in un mondo dove i significati sono contaminati ed i comportamenti diventano incerti e poco decifrabili.

Noi esseri umani abbiamo paura dell’indecifrabile, noi uomini attraverso i miti e poi i riti e poi la logica abbiamo cercato di chiarire l’indecifrabile che, però, a sua volta ci provoca ansia. Per questo Platone diceva che i poeti dovevano essere espulsi dalla città, perché impediscono la logica, la razionalità e, quindi, la certezza dei significati delle cose.

Poi però il filosofo si corregge ed afferma che la poesia è molto più bella della ragione, e che è qualcosa di divino.

Pochi giorni fa ho avuto il piacere di assistere ad una lectio magistralis del professor Umberto Galimberti che ha individuato due ordini di follia , un ordine “secondario”, che vede la follia come trasgressione delle regole della ragione, ed un ordine “primario”, una follia come status originario, che ha spinto l’uomo a dare vita alla ragione, per dominare questa follia. Ed inventando la ragione è nata la follia secondaria per contrastare la ragione.

Kant diceva la ragione è un’isola piccolissima nello sfondo dell’irrazionalità, così per essere artisti e poeti bisogna scendere in questo scenario folle ed indifferenziato, ma per farlo occorre una disciplina, perché è necessario poi riemergere altrimenti se ne resterebbe catturati. È proprio questa disciplina, necessaria per riemergere, che distingue la creatività dalla spontaneità, la quale non è disciplinata. Socrate aveva un “demone” dentro di sé, gli permetteva di lasciare il luogo della ragione e dell’io per andare altrove, e da lì a sua volta riemergere.

Era un demone che creava entusiasmo e tutti i poeti ed artisti sono entusiasti, non parlano di sé ma di un dio che parla dentro di loro. Ecco perché creatività è connessa ad entusiasmo, ossia ciò che i greci intendevano per “dio che parla dentro di te”. Per gli antichi gli uomini fondano la ragione per salvarsi dall’indifferenziato, che era antecedente ed era luogo degli dei.

La ragione era necessaria per convivere, ma non per essere artisti. Folle è lo scenario antecedente alla ragione che ci difende da ciò che eravamo prima, ossia folli.

In effetti, al nostro interno siamo irrazionali, ad esempio quando dialoghiamo con noi stessi, mentre quando siamo insieme agli altri questa parte non la rendiamo pubblica, e ci produciamo razionali.

Abbiamo due dimensioni, quella singolare (io) irrazionale; quella plurale (noi) razionali.

Esiste anche la dimensione duale (io e te) di nuovo irrazionale, l’amore è mettere insieme le nostre due follie, e capirsi, in amore non ci si intende in modo razionale, l’amore è potente e folle.

Un esempio, ogni mattina ci svegliamo venendo dai sogni, il luogo dell’indifferenziato. In un sogno posso essere contemporaneamente grande e piccolo, al corso di Salerno e a New York, i sogni rompono tutte le regole della ragione, pertanto sono follia.

E dopo un sogno, una volta svegli, ci vuole tempo per recuperare la razionalità, ecco perché al mattino compiamo molti rituali, per aiutarci nel passaggio.

Freud dirige la sua teoria psicoanalitica indirizzandola verso il complesso di Edipo, riferendosi alla tragedia di Sofocle. Uccidere il padre e sposare la madre. Per Freud questo accade verso i 4 e i 5 anni, alle soglie dell’età della ragione, intendendo che puoi avere uno sviluppo psichico uscendo dall’indifferenziato, apprendendo la differenza tra madre e moglie, tra padre e nemico.

Edipo infatti non distingue le differenze, confonde (misconosce le differenze) e quando viene a sapere la verità si acceca, dopo di che continua a non vedere le differenze (perché cieco) e resta nell’indifferenziato.

La follia non è una cosa in cui si cade, perché da lì veniamo, dopo diventiamo capaci di razionalità e ci restiamo attaccati, e quando non ce la facciamo più là ritorniamo. Anche i vecchi ritornano bambini, cioè folli. Non ha niente a che vedere con un raptus, è una follia sottostante, che è anche il fondo dellanostra creatività.

Anche nella cultura ebraica, Dio ordina ad Abramo di uccidere il figlio, perché gli dei non rispettano le regole, e la dimensione religiosa si raggiunge superando le regole della ragione, arrivando all’assurdo.

Lì incontri il Dio che vive nella follia, in quanto la ragione è un evento umano, il Dio che non è ragionevole, è imprevedibile, porta disordine, è distruttivo. Giobbe, ancora, cerca di fare ragionare Dio. È un uomo giusto, ma gliene capitano di ogni sorta, la moglie lo abbandona, gli amici lo giudicano male e lui certo non lo merita. Ne chiede il perché a Dio, come mai, cerca di farlo ragionare. La risposta è tremenda, dov’eri, dice Dio, quando io creavo la terra? È come dire, ma che domande mi fai, di cosa ti lamenti, della moglie, dei tuoi amici, con me? Dio non sta nella ragione, anche in questa cultura, lontanissima da quella greca, Dio sta nella follia.

La creatività significa scendere nella follia, e riemergere. Ma la riemersione non è garantita.

Carl Gustav Jung, che era psicotico e che per questo era stato un ottimo terapeuta, diceva ai suoi allievi: anche se vedete dov’è il male, non tutte le porte vanno aperte, perché il paziente potrebbe non riemergere più.

La ragione non crea niente, inventa solo regole.

Bisognerebbe avere una certa familiarità con la propria follia, perché da lì nasce il nuovo.

C’è un altro che parla dentro di noi, che andrebbe ascoltato. I poeti sono ascoltatori di un “esso” che parla dentro di loro. Non è solo la base della nostra creatività, ma anche della nostra specificità, in fin dei conti siamo tutti uguali nella razionalità, mentre nella irrazionalità siamo davvero diversi.

E poi l’amore, contaminazione tra due follie, e in queste potersi intendere.

*****

AMORE E FOLLIA

gli amanti che passano la vita insieme e (…) non sanno dire cosa vogliono l’uno dall’altro (Platone)

Nella solitudine siamo tutti irrazionali, lo sono io quando parlo e rido da solo, cose che non farei mai in un teatro o in un cinema e nemmeno in un’aula universitaria. In effetti, l’uomo è al suo interno irrazionale ed assume comportamenti fuori dal normale (dalla norma), comportamenti che non manifesterà mai in pubblico. L’uomo vive in due dimensioni diverse: la casa dell’ “io” che è irrazionale e la dimensione del “noi”che è razionale.

Esiste, però, anche una dimensione duale (io e te) che costituisce una coppia, la più piccola comunità esistente, questa non è solitudine ma nemmeno moltitudine, semplicemente è una microcomunità. Io e te formiamo il mondo dell’amore, un posto costruito dalla mia e dalla tua follia e solo in questo posto potremo intenderci.

“Quasi fuori dal cielo si àncora tra due montagne

la metà della luna

Girevole, errante notte la scavatrice d’occhi

Vediamo quante stelle sbriciolate nella pozzanghera”

(Casi fuera dal cielo, Pablo Neruda)

Qui Neruda parla dal suo folle mondo, quello dell’ amore, laddove le stelle sono tutte le cose o magari niente e la pozzanghera è, forse, la meraviglia di questo mondo.

È una dimensione percepibile solo da Neruda e dalla propria amata, uno spazio dove le cose possono significare mille cose e, nello stesso tempo, nulla, conoscibile solo dai due amanti. L’amore è fuori dal mondo razionale, è il mezzo che ci conduce in una dimensione che è al di fuori della nostra vita (razionale) per approdare in un non- luogo (a- topos) dove il tempo non ha secondi e lo spazio non ha metri.

Il fuori- luogo dove regnano passioni e desideri che rendono i significati instabili e che ci indeboliscono notevolmente, e in un luogo dove esistono solo pulsioni e desideri, l’ordine e la ragione non sono altro che neve al sole.

L’amore non si conosce, basta osservare “gli amanti che passano la vita insieme e che non sanno dire cosa vogliono l’uno dall’altro. Non si può certo credere che solo per il commercio dei piaceri carnali essi provano una passione così ardente ad essere insieme. È allora evidente che l’anima di ciascuno vuole altra cosa che non è capace di dire e perciò la esprime con vaghi presagi, come divinando da un fondo enigmatico e buio.”

Questo passo di Platone (ta aphrodisia, ossia le cose dell’amore) tratta di ciò che l’anima riesce o non riesce a dire, il “dire” si arresta laddove inizia l’oscurità dell’amore, ossia l’indicibile perchè non si conosce il significato dello stesso, sembra quasi essere un enigma.

È un mondo in cui la dicibilità (razionalità) si ferma davanti all’indicibilità (l’irrazionalità, propria degli amanti).

D’altronde, come direbbe Freud, l’amore parla ma non sapremo mai ciò che dice, non lo potremo mai sapere perchè è inconscio e noi uomini siamo capaci solamente di conoscere ciò che è l’elaborazione secondaria del nostro inconscio, ossia il resoconto che un uomo fa.

Platone, nel Simposio, sosteneva che la nostra natura non è la stessa di oggi, prima eravamo uniti, eravamo una creatura sola, e non generavamo per unione reciproca ma per unione con la terra.

Questa creatura era inoltre circolare: quattro mani, quattro gambe, due volti su una sola testa, quattro orecchie, due organi genitali e tutto il resto come ci si può immaginare.

Questa natura doppia è però stata spezzata da Zeus, il quale fu indotto a tagliare a metà questi esseri per la loro tracotanza, al fine di renderli più deboli ed evitare che attentassero al potere degli dei (d’altro canto, eliminarli del tutto avrebbe comportato la perdita dell’unica forma vivente da cui gli dei erano venerati). Da allora ciascuno di noi è un “contrassegno” d'uomo (è la metà), unire due metà è formare il simbolo (σύμβολον) che è la ragion d’essere di Eros, medico e amico degli uomini.

D’altronde, nell’antica Grecia era diffusa l’usanza di tagliare un anello, una moneta o qualsiasi altro oggetto e dare la metà ad una persona cara.

Queste metà di oggetti venivano custodite dall’una e dall’altra parte, conservate e consegnate di generazione in generazione, queste, poi, consentivano ai discendenti di riconoscersi.

Questo segno di riconoscimento è il simbolo, ed è proprio nel “simbolo” il significato della parola Eros (il Dio che unisce le metà) dove alla divisione (dia- ballein) inflitta da Zeus, segue la congiunzione (sum- ballein).

Secondo Platone, l’uomo prima di vivere ha avuto una non- vita, in cui era unito con un’altra persona (la non-vita era il periodo in cui il due era l’uno) la divisione avviene nel momento in cui si inizia a vivere in quella dimensione razionale dove esiste tempo e spazio, ossia il mondo sensibile.

Durante la vita l’uomo sente la forte necessità di tornare nel mondo primordiale, dove il due era l’uno, laddove lo spazio e il tempo non esistevano, quindi è spinto alla ricerca della propria metà.

Zeus dopo aver inflitto la pena (il castigo) si è anche preoccupato di curare l’ antica ferita dell’uomo, così invia Eros, amico degli uomini, il quale cerca di medicare questa piaga provocando il forte desiderio (che ci appartiene) di unirci l’uno con l’altro.

L’uomo, non ha vita facile dal momento in cui diventa metà, infatti a lui “non è concesso distogliere l’occhio dal proprio taglio” , questa è sofferenza, e a curare l’uomo è l’amico e medico Eros, colui che vive al confine tra l’ irrazionale (non- mondo divino) e il razionale (mondo umano), che spinge l’uomo ad amare perché è l’unico rimedio per distruggere la bruta forza disgregatrice dell’ uomo che è l’assoluta razionalità, che porta al completo appiattimento delle pulsioni e dei desideri e, quindi, di se stesso, conduce alla morte (amore, è un desiderio di non morire, a- mors, ossia è la non- morte).

L’uomo ha bisogno di vivere nel mondo dell’amore, ognuno di noi desidera l’altro, ciò è nell’indole di chi è a metà, la metà cerca “pienezza” e per raggiungerla deve unirsi con l’altra metà.

La pienezza è il mondo dell’amore creata dalle follie delle metà, il non- luogo che anche Freud vede fuori dalla razionalità, si entra in amore per desiderio di unirsi, la cura di Eros, e introdursi in quella follia comune alla coppia dove discorsi deliranti come: “non potrei vivere senza te. Vuoi la luna? La luce delle stelle?” hanno il loro significato.

L’uomo necessita di vivere nel mondo folle dell’amore e la necessità si percepisce dal desiderio di volere l’altro, che è fortissimo, quasi insostenibile, in sua assenza, ma il desiderio diminuisce in sua presenza.

Si ama perchè si desidera, se non c’è desiderio non c’è amore.

Platone dice: “Noi fummo interi così come la ricerca di questa unità ha per nome Eros”, per questo il nostro amico Eros inevitabilmente ci spinge verso quella pienezza che costituiva la nostra originaria natura e che ci apparteneva nel non- mondo divino.

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A volte però ci si lascia...

Ci si lascia per tradimento o perchè viene meno il desiderio, quindi l’amore.

Quando viene meno il desiderio di condividere la follia, avviene un fenomeno in cui si rompe la sintonia nella coppia e, quindi, ci si risveglia e scopriamo che la persona che credevamo di amare, nella realtà, è diversa da come ce la immaginavamo.

Il fenomeno del risveglio avviene quando rimaniamo troppo stabili nel mondo razionale e non riusciamo più a scendere nell’ a-topos (non-luogo) dell’amore.

Quando ci si risveglia si esce (ex-it) dal mondo folle dell’amore e abbandoniamo il rapporto col proprio partner.

Cosi la propria compagna diventa una ex che è la radice di exit, uscita.

È un’uscita da quel mondo folle che ci aveva accolto.

Ma prima di parlare di questa uscita preferirei esporre qualche riflessione sul tradimento.

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SUL TRADIMENTO

Il tradimento è un vizio comune ma è grave, è il peccato di Giuda, e avviene quando c’è fiducia.

È evidente che la sua gravità è tanto mggiore quanto è maggiore la fiducia.

A volte il vero amore crea un rapporto nella coppia di fiducia incondizionata, senza garanzie nè condizioni, questo avviene quando si crede pienamente ad una persona (esempio, quando si crede incondizionatamente ad una mamma) se in tal caso avviene il tradimento, questo si presenta come una vera e propria infamità.

Nel nostro mondo, però, è sempre meno plausibile che vi possa essere qualcuno capace di un totale ed incondizionato affidamento.

In un mondo, come quello di oggi, in cui l’amore come dono di sè tende sempre di più a venir meno, diventa anche più possibile tradire.

S’intende per tradimento d’amore, l’inganno che brucia ed offende.

Oggi poco si dà e poco si toglie, in un mondo dove tutto è scambiabile tramite denaro, in tal contesto il tradimento non riveste più il carattere della colpa, sembra che in questo mondo si tradisce solo in base alla competenza.

Chi tradisce approfitta dell’altrui aspettativa, oggi come oggi il tradimento non è più visto come aggiramento della fiducia, ha perso la sua gravità ed è visto come semplice presa in giro, così del tradimento oramai si ride ed è diventato semplice motivo di pettegolezzo.

Ma il tradimento non cessa di essere menzogna.

Accade spesso che si parli di storie dove sono frequenti gli adulteri o le relazioni senza impegno, ossia il tradirsi e l’amarsi sono la stessa cosa, così il relativo disimpegno attenua la portata del tradimento e consente separazioni senza dolore, amori senza fedeltà, fedeltà senza amore.

Di solito all’inizio di ogni relazione prevediamo che l’amore finisca, non si sa mai, d’altronde viviamo in un tempo in cui tutti i diritti devono essere garantiti, come giusto che sia.

Ma viviamo anche in un tempo di sfumate fedeltà e di correnti tradimenti.

Tradire non è più un delitto, ma in una società in cui il tradimento è divenuto motivo di semplice intrattenimento, come è possibile coltivare l’amore?

L’amore può essere coltivato solo se si è capaci di donare (di dare).

Non poche volte ho ascoltato chi, nonostante sia innamorato di una persona , abbia tradito giustificando questo comportamento dato dalla semplice debolezza umana.

Però, ho sempre pensato che si può non essere all’altezza di amare (dell’amore), ma non si può svendere l’amore perchè non se ne è all’altezza.

Ex

Ex è lasciare qualcosa dietro di noi, è guardare al futuro senza essere trattenuti nel passato.

Si esce (ex-it) dal mondo folle dell’amore e abbandoniamo il rapporto col proprio partner.

Cosi la propria compagna diventa una ex che è la radice di exit, uscita. È un’uscita da quel mondo folle che ci aveva accolto.

Si lascia quindi qualcosa dietro le spalle.

Questa condizione è propria degli amanti gli amanti, ma certo si è colti poi dalla nostalgia, una parola composta da due vocaboli greci, inventata da un laureando in medicina Johannes Hofer nel 1688 per designare quella sindrome malinconica caratterizzata dal dolore (algos) determinato dal desiderio di ritornare (nostos) laddove si era stati prima.

È una sindrome molto seria e a volte preoccupante, infatti in pochi casi questa ha portato alla morte.

Per difendersi dalla nostalgia si è soliti prendere due strade: la vendetta o il perdono.

Due strade errate che non salvano il nostalgico dalla sua atroce malinconia.

La vendetta è un piatto che si serve a freddo, dopo un po’ di tempo, ossia quando capita l’occasione giusta per distruggere chi riteniamo ci abbia fatto un torto.

Questo comporta che per giorni, mesi o addirittura anni la nostra psiche sia assediata da questo pensiero, attorcigliata intorno alle strategie più efficaci per vendicarsi, e in questo modo non si pensa più nè al presente e nè al futuro.

È un arresto dell’ordinario percorso della nostra psiche, del suo sviluppo e delle sue capacità di cogliere le occasioni della vita.

Questa è la vendetta.

Anche il perdono è, a mio parere, una via da non dover prendere perchè è un gesto che assolve la colpa, la estingue così da non consentire al colpevole una revisione di sè.

Un fatto, dice la teologia medievale, non può ritenersi un non fatto, neppure Dio può far questo (factum infectum fieri non potest, neque Deus).

Non si può, oltre che soffrire per il torto, chiedere alla vittima uno sforzo psichico tale da perdonare il colpevole.

Ma come si esce da questa nostalgia senza vendetta nè perdono?

Si esce (ex-it) distaccandosi dal passato e senza che questo pregiudichi il nostro futuro, diventando così il cancro della nostra vita.

Si pensi a Giuda e Pietro che tradirono Gesù, con la differenza che Giuda non riusciva a dare un taglio netto al passato, il quale ha contaminato la sua vita al punto tale da spingerlo ad impiccarsi.

Pietro,invece, non ha concesso al suo passato di pregiudicare la propria vita e così facendo divento il primo Papa.

In amore capita di essere traditi, ma l’amore è una storia che si vive in due, dove entrambe le persone hanno vissuto nel mondo di Eros, e la possibilità di essere traditi deve essere messa in conto nel giorno stesso in cui inizia la storia d’amore.

L’amore appartiene al tradimento come il giorno alla notte, infatti solo gli amanti possono tradirsi ed ignorare questa logica è infantile.

A volte ci si dispera per il fatto di essere stati traditi, ma non teniamo conto di una cosa tanto vera quanto importante, ossia che si può credere di tradire la propria terra, i propri amici, il proprio amore, ma l’unica cosa che può tradire una persona è solamente se stessa.

Domenico Fauceglia Episteme laboratorio dei saperi © 2010 epistemelaboratorio.blogspot.com

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